29 luglio 2013

Pep KO: la Supercoppa è del Borussia Dortmund



 Male la prima: Pep Guardiola e il suo Bayern bucano a sorpresa il primo trofeo ufficiale della stagione: sotto la marea gialla del Westfalenstadion, il Borussia Dortmund si prende la rivincita dell’ultima Champions League e può alzare con merito la Supercoppa di Germania. 4-2 il risultato finale in favore dei ragazzi di Klopp, con doppietta di Reus, rete di Gundogan e autogol di van Buyten, inutili i due gol di Robben.

Guardiola sorprende da subito: il suo 4-3-3 prevede Mandzukic a sinistra e pronto ad approfittare degli spazi creati dal falso centravanti Shaqiri, con Robben a destra e Muller sulla linea dei centrocampisti che comprende anche Thiago Alcantara davanti alla difesa e Toni Kroos. Pesanti le assenze di Ribery, Neur e Goetze, con Schweinsteiger che deve partire dalla panchina. Anche in casa Dortmund devono fare a meno di pezzi grossi: non c’è il neo acquisto Mkhitaryan e Aubameyang deve partire dalla panchina, manca Piszczek, che è sostituito nel ruolo di terzino destro da Grosskreutz. Klopp arma il suo classico 4-2-3-1 con Sahin e Bender davanti alla difesa, Gundogan gioca più avanti con Lewandoski riferimento offensivo, affiancato da Reus e da Kuba Blaszczykowski, in campo dall’inizio nonostante un fastidioso infortunio. Inizia con autorità la squadra di Pep, naturalmente favorita, ma al 6’, al primo errore, va sotto: grossolana l’incertezza del sostituto di Neur, Tom Starke, che non trattiene una palla di semplice lettura, ne approfitta Reus, che segue l’azione e si avvantaggia della papera per mettere dentro. Dopo un paio di minuti balla ancora la difesa bavarese, in cui Guardiola sceglie di panchinare Dante in favore di van Buyten e Boateng: la rete di Lewandoski è però annullata per dubbio fuorigioco. La partita è aperta, il Bayern va vicino alla rete in un paio di occasioni con Shaqiri (su cui è bravissimo Weidenfeller) e Mandzukic, che non arriva su un assist da sinistra del positivo Alaba. Ma i campioni d’Europa fanno enorme fatica nel contenere la favolosa transizione del Borussia, che trova appoggi decisivi, ai fini dell’apertura della manovra, sulla trequarti anche per la poca coordinazione della linea difensiva bavarese con i centrocampisti: alle spalle di Thiago Alcantara c’è troppo spazio. Il Dortmund potrebbe sentenziare la gara: la migliore occasione capita a Lewandoski, dopo una ottima intuizione del connazionale Blaszczykowski, Starke è bravo a opporsi.

Troppa sofferenza, Guardiola è obbligato a modificare l’assetto e ridisegna a inizio secondo tempo la sua squadra col 4-2-3-1, con Kroos ad affiancare Thiago Alcantara nella creazione, Mandzukic ritorna in mezzo, Muller gioca dietro di lui, Robben va a sinistra e Shaqiri passa a destra. L’uomo chiave resta però Lahm (molto elogiato da Guardiola, durante tutta la preparazione): dopo una palla lavorata finalmente bene da Thiago, è del terzino il cross, da destra, che pesca Robben, bravo a mettere dentro, ma malissimo in marcatura la difesa del Dortmund, specie cattiva la lettura di Grosskreutz sul lato debole. La rete del pareggio, al 54’, non demoralizza i padroni di casa, che reagiscono con due gol in due minuti. Ancora troppa libertà sulla trequarti per Gundogan: un suo cross è deviato nella rete da una improvvida deviazione di testa di van Buyten (56’), una conclusione a giro è imparabile per il 3-1 (57’). I gialli hanno in mano la gara, che però viene riaperta per merito dell’ennesima percussione di Lahm: Robben in area approfitta del mancato anticipo di Hummels per ricevere, si gira con grande rapidità e trova la rete del 2-3 (64’). Guardiola si gioca tutto inserendo Schweinsteiger ( e poi Pizarro) e riformando un 4-3-3 spurio. La gara è bellissima: entrambe le squadra propongono e concludono, non riescono a modificare il risultato prima Muller (palo) poi Gundogan e Reus (salvataggio sulla linea di Alaba). Klopp butta nella mischia Aubameyang per Blaszczykowski (72’), e l’ex Saint Etienne diventa un fattore nelle ripartenze del Dortmund. In una di queste, offre un magnifico assist a Reus che in posizione dubbia mette dentro la rete che chiude il match, all’86’: un minuto prima Guardiola aveva inserito il difensore brasiliano Dante nel ruolo di centravanti (sic). Il super ciclo di vittorie del Bayern si interrompe qui, Pep ha il tempo per rifarsi e riflettere, ma la pressione su di lui aumenta. Per Klopp, una bella e meritata rivincita.

CARLO PIZZIGONI
Fonte: Gazzetta.it

11 luglio 2013

Uruguay in finale nel Mondiale under 20: continua il miracolo charrua, rivoluzionario fin dagli albori

L'Uruguay under 20 si qualifica per la finale Mondiale, che giocherà sabato contro la Francia. L'Uruguay è il vero miracolo del calcio: un Paese grande come la Lombardia che da sempre è competitivo ad altissimo livello. Ecco come tutto cominciò...




Si Inglaterra es la madre del futbol, Uruguay es el padre. Si dice questo nelle viuzze di Montevideo, e in tutta la República Oriental. Non è opinione, è storia: nell’ottobre del 1863 la Football Association organizzava il primo regolamento calcistico, la nazionale uruguayana vinceva le prime manifestazioni internazionali legate allo sport della pedata: le Olimpiadi del 1924 e del 1928, e il primo Mondiale, nel 1930. Il passaggio di consegne avviene in maniera diretta, sono naturalmente i britannici a sbarcare il football alle foci del Rio de La Plata. Nel 1891 nasceva l’Albion Football Club, ma l’accesso era esclusivo, così i giovani uruguayani, subito appassionatisi al gioco, avevano provveduto in proprio. Alcuni si erano infiltrati nel Central Uruguay Railway Cricket Club (CURCC), altri avevano fondato il Club Nacional de Futbol: prima di fine secolo era già nata la più grande rivalità del calcio uruguayano, Peñarol - Nacional. La sezione calcistica del CURCC avrebbe, infatti, preso a prestito il nome del quartiere dove era stata eretta la Empresa de Ferrocarril, la società delle ferrovie che stava ridisegnando logisticamente l’Uruguay. Nel 1751 la famiglia piemontese Crosa, originaria di Pinerolo, aveva costruito qui la propria “fazenda”, a cui aveva assegnato il nostalgico nome di Villa Peñarol, da qui il nome del barrio di Montevideo, e quindi la squadra che non a caso aveva scelto il giallo e il nero, i colori delle ferrovie inglesi. Il CURCC/Peñarol aveva sfidato l’Albion, in quella che sarà ricordata come la prima partita del calcio uruguayano, e i gialloneri saranno protagonisti anche del debutto internazionale, officiando una gara disputata a Buenos Aires. La Celeste, la nazionale dell’Uruguay, vince le prime edizioni della Copa America ( che era ancora chiamata “Campeonato Sudamericano de Selecciones”), nel 1916 e l’anno successivo. Il Paese viveva una straordinaria stagione, sia dal punto di vista economico (anche grazie agli investimenti inglesi, che da quello sociale, specialmente nei due mandati del presidente José Battle y Ordoñez (1903-07, 1911-15). Tra le riforme di quel periodo, quella della separazione tra Stato e Chiesa,  l’abolizione della pena di morte e del servizio militare obbligatorio, la nazionalizzazione della maggior parte dei servizi pubblici, il suffragio universale, l’apertura dell’università alle donne. In questa atmosfera si inserisce l’esordio di calciatori neri nella nazionale, un passo considerato tabù in altri paesi sudamericani. La gara d’esordio della Copa America del ’16, vede, per la prima volta la presenza di giocatori con discendenze africane, situazione che irrita fino al reclamo ( e alla richiesta di annullare il match) gli avversari del Cile: i due calciatori sono Juan Delgado e Isabelino Gradin, miglior giocatore e capocannoniere di quella competizione. Essi appartengono alla comunità Nera di origine africana che al principio del XIX rappresentava il 50% degli abitanti di Montevideo. Gli schiavi africani erano stati introdotti nel Paese a partire dal 1743, ma in maggioranza di essi erano destinati al lavoro nelle piantagioni di cotone e canna da zucchero, quindi al di fuori dell’Uruguay. Però a Montevideo attraccavano le navi, molte navi: nel giro di poco meno di cento anni si conta che giunsero circa 20 milioni di schiavi. L’Uruguay aveva un quarto della popolazione formato da Neri e meticci a inizio Ottocento, e aveva presto avviato un processo di emancipazione che li porterà, dopo l’Indipendenza del 1930, all’abolizione della schiavitù nel 1846. L’integrazione aveva naturalmente creato problemi, risolti, poco alla volta e almeno in parte, grazie ai successi sportivi di giocatori come Gradin, detto “ El Negro”. “ La gente si alzava in piedi quando lui si lanciava a velocità eccezionale, dominando la palla come se camminasse e senza fermarsi schivava i rivali e tirava in corsa”, annota il più grande scrittore di futbol, e non solo, del latino-america, Eduardo Galeano, lui pure uruguayano. Oltre alla forza fisica, c’è l’abilità mutuata anche dai balli africani: nasceva il dribbling, l’arte di aggirare gli avversari con la quale la Celeste stupì il pubblico alle Olimpiadi del 1924. In una Parigi che scopre diverse figure della cultura nera: i jazzmen, i pugili e la mitica Josephine Baker, la dark star delle Folies Bergère, che viene accreditata proprio di una love story con il calciatore uruguayano Andrade. Vinte le Olimpiade nella Ville Lumière, in finale contro la Svizzera (netto 3-0), la Celeste avrebbe bissato quattro anni dopo, per poi issare la coppa Rimet nel cielo di Montevideo, nel primo Mondiale giocato. La finalissima, contro l’Argentina, si giocava nell’avveniristico stadio Centenario (così nominato per festeggiare i cento anni dell’Indipendenza della nazione). Pochi mesi dopo un golpe e un governo militare avrebbe bloccato la grande età dell’oro uruguayana, che nel calcio aveva già fatto storia. La Storia.


CARLO PIZZIGONI
Fonte: Giornale del Popolo - Lugano


05 luglio 2013

Da Thiago Silva a Chico Mendes, è un Nuovo Brasile?




Su la Testa. In campo, il Brasile ha distrutto la Spagna campione del Mondo e si è portato a casa la Confederations Cup, in un Maracanã che è tornato a ruggire dopo mesi di gru, ruspe e polemiche. Ma il torneo della FIFA ha lasciato anche altre foto ricordo, decisamente poco piacevoli. Le manifestazioni di piazza, i cortei più o meni violenti, le cariche della polizia, hanno accompagnato tutta la competizione, innescando polemiche dentro e fuori dal Brasile. Lo slogan per etichettare ad uso dei social network la “Rivolta” è già pronto: il Gigante si è svegliato. Il Brasile è stato per troppi anni, considerato periferia dell’Impero. Il BIC (Brasile, India, Cina, poi divenuto BRICS, con l’aggiunta di Russia e Sudafrica) l’acronimo coniato per indicare i Paesi con il maggiore sviluppo economico, era un miraggio e gli Stati guida del Mondo tendevano a scegliere altri interlocutori quando si trattava il tema del Sudamerica. E in un certo senso il Brasile è poco sudamericano. La dominazione portoghese è stata profondamente differente, non solo da quella calvinista e in generale protestante che ha interessato il Nord del Continente, ma anche da quella spagnola che, pur nelle necessarie distinzioni, ha abbracciato il resto del Latino America. Come raccontano i datati saggi dei primi sociologi che hanno studiato le radici del Paese (datati ma raccomandabilissimi: per capire, più di certi reportage odierni meglio sfogliare Sergio Buarque de Hollanda, Darcy Ribeiro, Gilberto Freyre), la componente africana è significativa. L’incredibile numero degli schiavi che i lusitani sbarcavano sulle coste del Paese che prende l nome da un albero (il Pau Brasil) erano usati come manodopera da sfruttare nelle grandi piantagioni ma si sono piano piano mescolati con la popolazione locale e con quella creola. Esistono notizie di rivolte nelle piantagioni, ma sono eccezioni: e sono state soffocate nel sangue. L’uomo brasiliano che nasce da quegli anni ha una mentalità individualista, non fa quasi mai causa comune, esattamente come in Africa, abbassa la testa. Tanto che, anni dopo, anche i tentativi dei piccoli sindacati vengono soffocati senza pietà dai fazenderos: vale come testimonianza paradigmatica l’uccisione di Chico Mendes, il simbolo della lotta dei Seringueiro (raccoglitori di caucciù) nello stato di Acre.
La coscienza sociale, quella che chiede meno sprechi, meno corruzione, è la voce del Terzo Stato. L’esperienza del Sindacato di Chico è alla base della creazione del PT, il Partito dei Lavoratori, che con Lula prima, e ora con Dilma ha portato il Brasile alla crescita economica. Il Brasile deve alzare la testa, vincere anche nel campo sociale, provvedere a riforme non più procrastinabili. E il calcio, il futebol che vince, può servire in un Paese che ha il calcio nelle sue vene. Una poetessa snob, figlia dell’aristocrazia carioca una volta mi disse: “il “nostro attentato a Kennedy” è stato il Maracanazo, il giorno in cui il Brasile poteva e doveva vincere il Mondiale e fu sconfitto dall’Uruguay. Sembrava il segno della fine della nostra illusione” Lì, come si nota bene nei romanzi di Jorge Amado, il Brasile ha rinnovato il suo pessimismo, chinando la testa e pensando di non essere “vincente”, di non potercela fare: le cose non cambieranno. E invece, no. Il Brasile ha vinto cinque Mondiali, e potrebbe scrivere HEXA, la prossima estate. Liquidato il CT Mano Menezes, anche per una guerra interna alla Federcalcio (figlia di una politica non sempre trasparente, pure qui...), serviva un nome forte, che riguadagnasse credibilità e possedesse carisma. La CBF ha puntato su Felipe Scolari, affiancandogli Carlos Alberto Parreira, cioè i due CT che hanno vinto il quarto e il quinto titolo Mondiale con la Seleção. E Felipão ha puntato ha costruire certezze in una Nazionale che con Mano era troppo fragile. Interessante la promozione sul campo di Luiz Gustavo, in ottica soprattutto difensiva. David Luiz e Thiago Silva hanno capacità balistiche notevoli, sono i primi registi della squadra e assicurano solidità dietro: fase difensiva a cui ha partecipato anche Hulk (preferito a Lucas), reduce da una tormentata stagione in Russia. Il Brasile ha una batteria di giocatori illimitata e di alto livello (Fernandinho, dopo l'esilio ucraino troverà convocazioni più frequenti, con l'approdo al Manchester City), ma deve proseguire sulla via della solidità. Anche perché, tra i maggiori rivali, l'affossamento della Invencible Armada, provocherà sconquassi all'interno della Spagna, anche se oggi si tende a minimizzare in terra iberica. La vittoria di domenica, il largo dominio è stata fondamentale, ha aumentato l'autostima di un gruppo che davanti a sé ha un anno che regalerà a tutti una pressione indicibile. Nessun altro Maracanazo, il Brasile deve vincere, per il futebol e per altro.
Quella coppa alzata domenica nel nuovo Maracanã, deve essere il simbolo di un Paese che sul campo e soprattutto fuori può, che ha le capacità per essere migliore di fronte a tante avversità. Rialzando la testa, di fronte alle polemiche e al Mondo: nasce un Nuovo Brasile?

CARLO PIZZIGONI
Fonte: Giornale del Popolo - Lugano